Riccardo Prati a cura di Riccardo Prati

Una vita in viaggio

I racconti di Riccardo

Quando era un bambino Riccardo aveva un mappamondo a fianco del letto e prima di addormentarsi lo faceva ruotare. Poi lo fermava con un dito, scopriva su quale lembo di terra si fosse fermato e fantasticava su quelle mete esotiche.

Overland indiano

Da New Delhi a Forlì su due Enfield bullet 350

07/11/2021

A Kharol Bagh la parola overland è pronunciata con una certa eccitazione.
La si sente tra gli innumerevoli commercianti di motociclette che sorseggiano il chai, tra i rombi assordanti di vecchi monocilindrici nelle grinfie di giovani meccanici, tra i dedali di viuzze straboccanti di accessori e pezzi di ricambio. Siamo a Nuova Delhi e i ragazzi dai lunghi capelli, dopo aver trascorso l'inverno indiano tra Goa e le montagne himalaiane del Kashmir e del Ladakh, si preparano a rientrare in Europa, in moto, attraversando affascinanti e inquieti paesi come Pakistan, Iran e Turchia.
A chi ne fosse ancora sprovvisto non resta che trovare la motocicletta giusta per il proprio portafoglio, ma la scelta non può essere che una, la mitica Enfield Bullet 350. Se ogni quartiere ha il suo re, quello di Kharol Bagh si chiama Lali Singh, il profeta dell'Enfield, l'amico dei ragazzi europei, un nome una garanzia. Le sue mani rimettono al mondo pistoni esausti, cilindri e valvole sventrate; quando la moto esce dalla sua stravagante officina si può ben dire che l'overland sta iniziando con il piede giusto. Sconfitta la tenace burocrazia indiana, Lali benedice con incensi e preghiere sikh le nostre rigenerate Enfield, ormai pronte ad affrontare il loro più lungo viaggio. Dopo diciassette giorni di attesa ora tocca a noi.

L'emozione è forte quando per l' ultima volta percorriamo l'immensa Connaught Place di Delhi; l'overland è veramente iniziato. Uscire dalla capitale indiana mette subito a dura prova le nostre condizioni psicofisiche; il traffico è allucinante, il caldo e lo smog insopportabili, la segnaletica incerta. E mancano “solo” 485 km al confine. Siamo sulla Grand Trunk Road, la storica arteria che collega Calcutta a Peshawar, un invidiabile laboratorio di cultura indiana e mussulmana. A tratti la strada è a due corsie per ogni senso di marcia e il traffico è scorrevole mentre, sempre più spesso, si è convogliati in una unica stretta carreggiata e ben presto sperimentiamo le improbabili tecniche di guida del popolo indiano. Non è raro incontrare grossi autocarri Tata divelti sull'asfalto , con il loro carico che intralcia il passaggio e macchine squarciate dalla folle potenza d'urto.

Impieghiamo tre giorni per raggiungere il famoso confine indo-pakistano, la frontiera dell'odio, fermandoci a Karnal, Ludhiana e Amritsar (da non perdere il mistico Golden Temple), viaggiando prevalentemente di mattina presto per evitare l’insopportabile afa pomeridiana. Per noi amanti della cucina indiana è un piacere intervallare le lunghe ore di marcia con deliziosi e veraci spuntini a base di piccantissimo dhal, tandoori chicken e chapati. La nostra presenza motorizzata attira ad ogni fermata l'attenzione di decine di incuriositi indiani, intenti ad oziare, che impazziscono quando riescono a capire la portata della nostra avventura. Incominciamo a sentirci un tuttuno con le nostre Enfield quando ci avviciniamo al confine; siamo nel Punjab, la terra dei separatisti sikh. Mi aspetto interminabili file di Tata in attesa di sconfinare, con immensi bivacchi e chilometri di vita vera. E invece la strada è deserta, l'unico valico di frontiera tra India e Pakistan è avvolto in uno strano silenzio. Da non crederci. È l'alba quando scopriamo che la dogana aprirà solo in tarda mattinata; siamo i primi e ci aspettano lunghe ore di attesa da dividere con qualche contrabbandiere ed equivoci personaggi. Poi, molto lentamente, arrivano nugoli di doganieri, i controlli sono estenuanti, così come le pressanti richieste di denaro e regali vari. Dopo tre ore di tensione abbiamo sbrigato tutte le formalità e finalmente entriamo in terra pakistana, la terra dell' Islam. Welcome to Pakistan!

Il benvenuto non è certo dei migliori: un distinto funzionario doganale ci contesta un’inezia nel nostro carnet de passage. È arrogante, prevenuto, maledettamente deciso; inscena un melodramma degno dei migliori attori e si rifiuta categoricamente di farci proseguire. Capiamo l’antifona e suggeriamo con discrezione una soluzione conveniente a tutti: la cifra richiesta è rilevante, ma non c’è altra scelta. Dopo tre ore ripartiamo con il morale a terra e l’ambiente circostante non è certo incoraggiante. Strade appena accennate, greggi di capre e bufali nervosi, polvere, smog, interminabili colonne di colorati camion, velocissimi e strapieni Mitsubishi; si guida con il clacson costantemente premuto, un inferno.

Questa è la parte più difficile e rischiosa del viaggio. Così recita la Lonely Planet: “La situazione nell’interno è rischiosa, imprevedibile e in gran parte incontrollabile da parte del governo, le autorità non incoraggiano gli stranieri a viaggiarvi. Il rischio di essere rapiti è alto, ma nessuno cercherà di fermarvi se decidete di rischiare la vita”.

Il nostro itinerario tocca città stupende come Lahore, Multan e Quetta, ma la serenità raramente ci appartiene. A Bhai Peru vige il coprifuoco e si sente sparare tutta la notte, mentre i muezzin squarciano il residuo silenzio con lancinanti grida e terrificanti invocazioni. Dopo varie peripezie arriviamo a Quetta, capitale del Beluchistan, regione abbandonata a sé stessa, schiacciata tra Iran e Afghanistan. Una città del far west in versione 2.0, melting-pot di gruppi etnici tra i quali impressionano gli imperturbabili Pathan.

Oltre Quetta 620 chilometri di duro deserto; solo qualche piccolo villaggio tra noi e l’Iran e in mezzo il nulla, ma un nulla eterogeneo fatto di montagne acuminate, di paesaggi lunari, di eremiti sui bordi della strada, di immense dune, di laghi salati, di ore senza incontrare un pick-up di contrabbandieri, di vento infuocato che brucia la pelle, di sentieri che dopo qualche chilometro si ritrovano in Afghanistan, di posti di blocco impensabili, di bambini che giocano con il Kalashnikov, di mille pensieri e di mille emozioni. Un viaggio nel viaggio. E noi sulla moto, dentro il paesaggio, non solo spettatori, ma anche attori protagonisti. Stremati e felici arriviamo a Tartan, città-discarica, città assurda di contrabbandieri, ma soprattutto città confine tra Pakistan e Iran.

Entrare in Iran è un sogno che si tramuta in realtà, il fascino del paese di Khomeini, le sue tradizioni, la sua storia sconosciuta ai più. Troviamo una nazione in bilico tra il riformismo occidentale di Khatami e l’integralismo islamico di Khamenei con la sensazione di essere in un paese dell’ex blocco sovietico. Ci sorprende la gentilezza, la disponibilità e la curiosità del popolo iraniano. Siamo turbati alla vista delle donne, goffamente rinchiuse nei loro drammaticamente neri chador. Finalmente si ritorna a viaggiare nel lato destro della carreggiata e le strade sono in perfette condizioni. Ma i 2.700 km di Iran non sono facili. Tra una città e l’altra vi sono centinaia di chilometri di deserto, di monotone strade che si perdono all’orizzonte. I primi giorni tempeste di sabbia e migliaia di camion-killer ci obbligano a virtuosismi di guida, poi arriva la pioggia che ci coglie un poco impreparati. Proseguendo a ovest è la volta del grande freddo e della neve dei passi montani con le moto che arrancano in debito di ossigeno.

Ogni sera, quando arriviamo a destinazione, io e Gabriele ci guardiamo in faccia e proviamo a sdrammatizzare sulle continue avversità che ci affliggono. A Esfahan la fermata d’obbligo è all’hotel Akhbar dove si ritrovano i motociclisti europei a caccia di informazioni e consigli. Decine di moto consumate dal viaggio presidiano l’entrata dell’albergo e sono meta di pellegrinaggio per i giovani iraniani.

Ho un piccolo problema elettrico alla moto e mi faccio accompagnare da un meccanico, in un quartiere periferico, disperso tra un dedalo intricato di viuzze.

Risolto il problema torno in albergo dove mi accorgo di avere dimenticato i miei occhiali da sole. Li do per persi quando bussano alla porta e mi ritrovo il garzone del meccanico con un gran sorriso e i miei Persol in mano. Questo è il popolo iraniano.

Dopo un meritato riposo incontriamo le città di Qom, Teheran e Tabriz tra continui posti di blocco e controlli della polizia segreta, il temuto Komitè. Poi il primo e ultimo cartello con la scritta “Kurdestan”: siamo in territorio curdo. Decidiamo di entrare in Turchia dalla frontiera nei pressi di Maku, a nord, onde evitare la politicamente calda regione del lago Van. A fare da guardia al confine iraniano-turco vi è il maestoso e innevato monte Ararat, con i suoi 5.165 metri che nascondono i misteri dell’arca, rifugiati curdi, villaggi fantasma e feroci cani pastore. Un monumento della natura, fiero e silenzioso, capace di farsi ammirare a decine di chilometri di distanza. E tutto intorno valli stupende dai mille colori, lontani villaggi a protezione di minareti argentati, pastori bambini che chiedono le caramelle e che a volte ci tirano i sassi.

Regione bellissima la Turchia orientale; per quasi mille chilometri siamo circondati da cime innevate e il freddo e il maltempo non accennano a diminuire. Ma ormai la nostra euforia è alle stelle, niente e nessuno può più fermare la nostra folle corsa. Maciniamo centinaia di chilometri con grande disinvoltura e ci permettiamo anche il lusso di una deviazione in Cappadocia tra valli fatate e villaggi trogloditi. Si sente sempre più aria d’Europa, Ankara non è che l’antipasto, perché quando varchiamo il ponte sul Bosforo che divide Istanbul est da quella ovest, siamo davvero geograficamente nel vecchio continente. Il momento è emozionante e incuranti dello spaventoso traffico lo immortaliamo con una foto di rito con le braccia levate al cielo in segno di vittoria. Istanbul da sola meriterebbe un viaggio a parte ma la nostra mente è ormai proiettata a Igoumenitsa dove ci attende il traghetto per l’Italia. Vogliamo mettere il sigillo alla nostra piccola grande impresa.

Lasciamo quindi la Turchia e rapidamente attraversiamo la Grecia, snobbando le belle spiagge che costeggiamo per lunghi tratti.

Gli ultimi chilometri che ci separano da casa sono di quelli indimenticabili: siamo sulla A14 ma i nostri occhi vedono ancora uomini con i turbanti, moschee colorate e paesaggi lunari. Vediamo Lali Singh nella vecchia officina che non ha mai abbandonato, lo vediamo mentre gli confessiamo con preoccupazione di avere pochissima esperienza di viaggi in moto e lui, con un sorriso disarmante, ci risponde: “No problem, brothers”.

Vorremmo tornare indietro, a Kharol Bagh, per dirgli che aveva ragione.

L’idea, divenuta sogno, si è poi trasformata in realtà.

Un bel sogno, una grande esperienza. Grazie di tutto Lali.


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