Una vita in viaggio
I racconti di Riccardo
Quando era un bambino Riccardo aveva un mappamondo a fianco del letto e prima di addormentarsi lo faceva ruotare. Poi lo fermava con un dito, scopriva su quale lembo di terra si fosse fermato e fantasticava su quelle mete esotiche.
Isola di Pasqua
L'Isola di Pasqua in moto ...
In sella alla mia BMW GS 1.100 ho attraversato le strade più belle dell’America latina, la rinomata Ruta 40 e la Carretera Austral. Incrociando paesaggi di incredibile bellezza, ghiacciai come il Perito Moreno, montagne fantastiche come il Fitz Roy, il Cerro Torre e le Torri del Paine, i paesaggi lunari della Patagonia. Dopo un viaggio del genere sembrerebbe difficile trovare ancora uno stimolo, una nuova inedita avventura, la cosiddetta ciliegina sulla torta.
E invece no, l’ho trovata. Questa ciliegina si chiama Isola di Pasqua, Rapa Nui per gli abitanti locali. Hai portato la tua GS all’Isola di Pasqua?
Purtroppo no, quasi impossibile. Rapa Nui, l’ombelico del mondo, è il luogo abitabile più isolato del pianeta, le coste cilene a 3.700 chilometri a est e le isole polinesiane a 2.100 chilometri a ovest. Un minuscolo lembo di terra nell’immensità dell’Oceano Pacifico. Due voli giornalieri e una nave due volte al mese sono le uniche possibilità per raggiungerla; naturalmente opto per la prima opzione, una moto da noleggiare la troverò sul posto. Il volo parte da Santiago del Cile, in questi giorni sotto assedio dalle proteste contro il caro vita e i problemi di disuguaglianza sociale. Il palazzo della Moneda è blindato e tutte le strade del centro sono militarizzate, la tensione altissima e il pericolo sempre dietro l’angolo. Ancora qualche giorno di pazienza e finalmente raggiungerò la pace assoluta, la pace quasi mistica di Rapa Nui.
Dopo un volo di cinque ore si è accolti in un piccolo terminal e subito si palesano i tratti somatici polinesiani degli addetti dell’aeroporto. E del titolare della mia guest-house che mi accoglie con la classica collana di fiori. Sono le 10 di sera, è bassa stagione e la strada principale di Hanga Roa, l’unica città dell’isola, è semi deserta.
Il cielo è illuminato da milioni di stelle e subito si percepisce di essere in un luogo magico. Si dice che Pasqua concili il sonno, forse per la sua forma triangolare che genera particolari vibrazioni o forse a causa della sua felice ubicazione lontana dalle terre emerse e dai rumori della civiltà. O forse perché sono stanchissimo ma il risultato è che la prima notte a Rapa Nui è memorabile con una dormita senza soste di circa dieci ore. Il giorno seguente sono fresco come una rosa e super motivato a noleggiare una bella moto per andare alla scoperta delle bellezze dell’isola.
Questa mattina le vie di Hanga Roa sono più affollate, un andirivieni di pick-up, pulmini, biciclette e pedoni. Tanta bella gente, tutti un po’ fricchettoni, sia i locali che i turisti. Vari sono i noleggiatori di mezzi a due ruote, di quad e di piccole auto; dopo una panoramica generale la mia scelta cade su una Honda XR 250, bianca e rossa, perfetta per le strade e gli sterrati che dovrò affrontare.
Pasqua è un’isola vulcanica originatasi a partire da tre vulcani che emersero dal mare e con un’estensione di 171 chilometri quadrati (l’isola d’Elba è 223 chilometri quadrati). Non esiste la possibilità di fare alcun tipo di assicurazione (nessun mezzo è assicurato sull’isola) e il casco, troppo piccolo per la mia circonferenza cranica, è una pura formalità. Paese nuovo, regole nuove; il serbatoio è pieno, non mi resta che partire. Torno verso l’aeroporto e costeggio la lunga striscia d’asfalto dell’enorme pista di atterraggio fatta costruire dalla NASA in previsione di un eventuale atterraggio dello Shuttle nel Pacifico. Poi si lascia il centro abitato, la strada comincia gradualmente a salire, le curve diventano tornanti e all’improvviso ecco il lago vulcanico Rano Kau, in parte coperto da una palude di fluttuanti canne di totora. Sembra un gigantesco calderone di una strega, un caleidoscopio di colori e biodiversità endemica. Pazzesco, ho visto decine di vulcani ma mai nulla di simile. Cammino fino a vari punti panoramici da cui ci si rende conto della forma dell’isola e del suo isolamento dal resto del mondo. Poi una passeggiata fino al villaggio cerimoniale di Orongo, abbarbicato da una parte sul bordo del cratere e dall’altro affacciato su un precipizio verticale che si getta nelle acque blu cobalto dell’oceano. Da qui si gode la vista dei tre isolotti su cui nidificavano gli uccelli marini e che mi portano alla mente le scene concitate del film “Rapa Nui”. Ogni anno il culto di Orongo prevedeva una gara, che consisteva nel scendere nel dirupo, nuotare nelle acque fredde infestate dagli squali, raggiungere uno degli isolotti e raccogliere il primo uovo di sterna. Vinceva chi riusciva a tornare indietro senza rompere l’uovo, guadagnandosi il diritto di nominare il nuovo “Uomo Uccello”, fino all’anno successivo adorato come un Dio in terra.
Fantastico a lungo e mi piacerebbe fare un salto indietro nel tempo ma un forte vento mi fa tornare con i piedi per terra e con la voglia di continuare il mio raid.
Ora è discesa, al bivio volto a destra dove inizia un veloce e piacevole sterrato. Una deviazione mi conduce al sito archeologico di Vinapu, sul mare, con due importanti ahu (piattaforme cerimoniali) che un tempo sostenevano i moai che ora giacciono rotti a faccia in giù. Si, qui con mia grande emozione vedo i miei primi moai. Gli enigmatici moai sono le gigantesche statue dalle sembianze umane che probabilmente rappresentano gli antenati dei clan dell’isola. Alte fino a 10 metri, queste statue dal volto di pietra erano posizionati con le spalle verso l’Oceano Pacifico, forse a proteggere e vigilare sul clan di appartenenza. È una meravigliosa giornata di sole, il sito è pressoché deserto e ne approfitto per una breve sessione di yoga.
Riparto seguendo la costa meridionale, c’è molto vento e le lunghe onde dell’oceano si rincorrono spumeggiando. La strada è così vicina al mare che sento l’odore della salsedine e a volte qualche spruzzo di spuma raggiunge i miei occhiali da sole. Tante le soste fotografiche e brevi i fuoripista su tratti sabbiosi e campi lavici. Ogni tanto i resti di un moai che giace prono o supino al suolo; non essendo riuscito a raggiungere la sua postazione sul mare è stato abbandonato a sé stesso e alla sua desolazione. Poi visito la ricostruzione di un villaggio tradizionale con le hare paenga, le case dei membri dell’elite dall’insolita forma di una snella canoa rovesciata lunga circa 12 metri. Particolare anche l’architettura degli hare moa, i pollai di pietra, sembra ce ne siano oltre 1.200; se non fosse per i moai l’isola sarebbe rinomata per la quantità industriale di antichi pollai.
Dopo alcuni chilometri svolto a sinistra, direzione Rano Raraku, una delle località più suggestive di Pasqua. Chiamato il “vivaio” è la cava da cui venivano estratti i blocchi di tufo utilizzati per scolpire i moai. Ce ne sono decine, in tutte le varie fasi di realizzazione, sparsi lungo le pendici del vulcano. È come se il tempo si fosse fermato in un attimo preciso, per una qualche ragione difficile da decifrare, come una Pompei in mezzo all’Oceano Pacifico. Scendo lentamente dalla collina, desideroso di vedere finalmente qualche moai eretto, come dovevano essere ai tempi d’oro.
E il luogo migliore non può che essere che il sito di Tongariki; lo vedo da lontano, dall’alto, scendendo da un breve sterrato con la mia recalcitrante Honda.
Restaurato dai giapponesi negli anni novanta, con le sue 15 imponenti statue è il più grande ahu mai costruito: il colpo d’occhio è incredibile e ci si sente quasi in soggezione di fronte a questi immensi patriarchi del passato. Completano il sito alcune rovine sparse e qualche petroglifo tra cui una tartaruga con il volto umano e un uomo-uccello.
Sono all’estremità orientale dell’isola su un altopiano dominato dal vulcano estinto Maunga Pu A Tiki; provo a uscire dalla strada principale e mi avventuro tra piccoli sentieri in terra battuta fino a quando un filo spinato di recinzione mi impedisce di proseguire oltre. Costeggio allora la Bahia La Perouse e faccio una visita al sito di Ahu Te Pito Kura dove un moai lungo quasi 10 metri giace riverso a faccia in giù con il collo spezzato, il più grande moai mai eretto. E nelle vicinanze una grande pietra magnetica chiamata “l’ombelico del mondo”; anche questo un luogo davvero mistico. È molto caldo e a questo punto della giornata mi concedo il lusso di due bei bagni nell’oceano. Dapprima a Ovahe, più difficile da raggiungere e con onde molto alte e pericolose. Poi alla più turistica Anakena, una meravigliosa spiaggia di sabbia bianca, con il mare calmo, qualche ristorantino, negozi di souvenir e sette moai di “ultima generazione”. La strada costiera non è più praticabile, si è costretti ad attraversare l’isola in direzione sud-ovest, tra boschi di eucalipti e continui saliscendi.
Rientro al porticciolo di Hanga Roa dove i pescatori stanno pulendo i tonni appena pescati attirando le attenzioni di due enormi tartarughe marine. La natura regna sovrana e gli uomini si sono adattati ai suoi ritmi, la fretta sembra non essersi impadronita di questi luoghi. Anche io mi adeguo e i giorni successivi, con calma,
mi dedico agli altri tratti di costa.
Il circuito settentrionale è quello più selvaggio: gli sterrati sono molto impegnativi, grandi buche e sassi che mettono in difficoltà il mio piccolo enduro. Tanti i cavalli che incontro durante il percorso e pochi gli esseri umani. Ad Ana Kakenga visito due grotte che si affacciano sull’oceano e a Ahu Akivi gli unici sette moai che guardano verso il mare. Ogni angolo una sorpresa, a ogni curva qualcosa che meriterebbe di essere fotografato. Torno varie volte al vulcano e rifaccio varie volte tutto il giro dell’isola, ogni volta notando qualcosa sfuggitomi in precedenza.
Sono in cerca però della ciliegina sulla ciliegina. E la trovo al calar del sole, al sito di Ahu Vai Uri, nelle vicinanze della mia guest-house. Parcheggio la moto e mi stendo sul prato, di fronte a cinque moai di varie forme e dimensioni. Non sono l’unico ad aver avuto questa idea: il grande prato si anima a poco a poco di centinaia di persone, non solo turisti. Ma io sono concentrato sui moai e mi sembra di essere da solo. Il sole rapidamente si abbassa all’orizzonte, i moai gli danno le spalle e non se ne interessano. Il cielo incomincia a prendere fuoco, l’ultimo lembo di sole scompare all’orizzonte portandosi via i misteri di Rapa Nui e dei suoi abitanti.