Una vita in viaggio
I racconti di Riccardo
Quando era un bambino Riccardo aveva un mappamondo a fianco del letto e prima di addormentarsi lo faceva ruotare. Poi lo fermava con un dito, scopriva su quale lembo di terra si fosse fermato e fantasticava su quelle mete esotiche.
Overland umanitario
Da Forlì alla Sierra Leone per beneficenza
Quando lascio l’aeroporto di Freetown il morale è ai minimi storici. La malaria mi ha reso una larva umana, il mio sogno di cambiare il mondo si è infranto nella malvagia puntura di una zanzara anophele. È l’estate 2005 e torno a casa con la coda tra le gambe. Lascio la martoriata Sierra Leone e i miei progetti a sostegno dei bambini soldato, lascio il fantastico vescovo Biguzzi e il caro Patrick, amico sierraleonese e collega al Master in Diritti Umani e Azione Umanitaria di Siena.
Trascorrono gli anni e la vita mi porta verso strade diverse. Ma rimane un conto in sospeso con quel fantastico paese che è la Sierra Leone, mi sento come in dovere di chiudere un cerchio. Come posso conciliare la mia grande passione per gli overland in moto con la propensione al volontariato internazionale e alla beneficenza? L’idea cova nei meandri della mia mente, la razionalità cerca di smentire il sogno fino a quando emerge ed è certa: attraverserò tutta l’Africa Occidentale con la mia moto e arrivato in Sierra Leone la donerò alla Caritas locale. Un viaggio molto impegnativo considerando la situazione socio-politica dell’Africa Sahariana e Subsahariana. Lancio la sfida ai miei più cari amici e Davide non esita a raccoglierla. Partiremo i primi di dicembre e dopo 6 anni chiuderò il cerchio.
La preparazione di un simile viaggio richiede diversi mesi di attività: trovare la moto giusta e sistemarla a dovere, risolvere i mille problemi burocratici (carnet de passage en douane, visti, autorizzazioni varie, ecc.), organizzazione logistica e scelta dell’itinerario . Ma in fondo è il mio lavoro e ci sono abituato.
Il giorno della partenza è sempre più vicino, l’adrenalina cresce ed in una fredda mattina d’inverno eccoci al porto di Genova, due amici, due moto e tante speranze. Anche tanta curiosità, siamo gli unici europei del grande traghetto per Tangeri e il mio portapacchi in compensato marino costruito da Davide, imprenditore del legno, è una stravaganza che non passa di certo inosservata.
Sarà un viaggio dalle quattro stagioni: dal freddo dell’Atlante marocchino alla nebbia e al vento del Sahara Occidentale, dal secco deserto della Mauritania alla giungla tropicale della Guinea e della Sierra Leone.
Infatti il Marocco ci accoglie con un cielo nuvoloso e una pioggerellina da Mitteleuropa; iniziano i primi chilometri sul suolo africano, le strade sono in ottime condizioni e con facilità raggiungiamo prima Rabat e poi la modernissima e vivace Casablanca. Seguiamo la costa, spunta il sole ed apprezziamo i paesaggi bucolici di El-Jadida e la colorata laguna di Oualidia fino a quando arriviamo alla mitica Essaouira. Ci immergiamo nelle sue strette viuzze dense di segreti, circondate da immense mura fortificate. Respirando un’atmosfera piuttosto hippy scegliamo un ristorantino locale per una sfiziosa cena. Amiamo la cucina marocchina e anche questa sera non saremo delusi: tajine vegetariana, couscous, melanzane … che meraviglia!!!
Una notte in un hotel inutilmente romantico, una veloce sosta ad Agadir, una passeggiata defaticante nella baia con i due archi di roccia che si protendono sul mare a Legzira Plage e pernottiamo a Sidi Ifni, nel cuore dell’ex Sahara spagnolo. Un’atmosfera surreale pervade la località: gli edifici art decò del centro città testimoniano un passato dimenticato mentre la spiaggia è allineata da camper e mezzi da deserto ipertecnologici in arrivo o in partenza per l’infinito deserto sahariano.
Come sempre partiamo all’alba, la mattina è molto fredda ma i panorami sono fantastici con il sole e la luna a farci da stella polare . A Goulimime colazione con pane , miele e caffè e finalmente inizia il deserto vuoto e desolato, l’hammada.
Il deserto lambisce l’Oceano Atlantico e termina con bellissime spiagge spazzate dal vento. Noi sfrecciamo sul bordo della scogliera mentre l’aria carica di umidità produce una fastidiosa nebbiolina. A Tan Tan il primo dei lunghi controlli dei militari, stiamo entrando nell’inferno del Sahara occidentale.
Questo immenso territorio è conteso tra Marocco e il Fronte Polisario, che ne ha dichiarato l'indipendenza proclamando la Repubblica Democratica Araba Sahraui. Sono oramai oltre cento le risoluzioni approvate dalle Nazioni Unite per svolgere il referendum per l’autodeterminazione del popolo Sahraui che tuttavia non si è finora tenuto a causa delle resistenze del governo marocchino il cui esercito continua a praticare una brutale repressione nei confronti di questo popolo obbligato a vivere in immensi campi profughi. Una delle coste più pescose del mondo, giacimenti petroliferi e miniere di fosfati rendono più che appetibile questo angolo di mondo inospitale, invivibile e desolatamente vuoto. L’hammada è vuoto ma non monotono: piccole dune si alternano a saline, colline da scavalcare, pietre da evitare, camionisti da salutare ; maciniamo chilometro dopo chilometro con pochissime pause. A Tarfaya un mitico quanto inaspettato pranzo a base di tajine di pesce, patatine fritte e lenticchie. Che meraviglia viaggiare! Una tappa d’obbligo al monumento ad Antoine de Saint-Exupery che qui trovò ispirazione per “Il piccolo principe” e ripartiamo in direzione Laayoune. Siamo nel mezzo del nulla e mancano ancora mille chilometri per il confine mauritano.
Oggi è deserto vero. All’alba c’è una nebbia che rende molto difficoltosa la guida, poi si alza il sole e spazza via tutto . La strada diventa un “mantra” , sembra non finire mai, velocità sostenuta, non incontriamo quasi nessuno, le emozioni e i pensieri più folli si rincorrono incessantemente. Dopo infiniti plateau si entra in un lungo canyon con curve molto piacevoli e veloci . Siamo incuriositi da una serie di capanne sul ciglio della scogliera; ci fermiamo e siamo accolti da un gruppo di entusiasti marocchini . Sono pescatori stagionali che si trasferiscono per l’inverno in questo luogo dimenticato dal mondo. È ora di pranzo e ovviamente ci invitano a dividere il loro pasto. In una decina ci stipiamo in un buio tugurio e inizia la divisione dei pani e dei pesci; le condizioni igieniche sono improbabili ma la bontà del pesce e la simpatia dei pescatori ci fanno dimenticare tutto. Contraccambiamo lasciando loro un po’ di frutta secca e a malincuore ripartiamo; oggi è la tappa più lunga del viaggio con i suoi 545 chilometri per Dakhla.
Vicina al Tropico del Cancro Dakhla è per antonomasia la capitale del vento. Ed è vero soprattutto in moto: appena entrati nella penisola il vento aumenta incredibilmente e rischia di farci uscire dalla stretta striscia di asfalto. Siamo nella mecca del kitesurf e decine di colorati paracaduti sfrecciano nelle infinite baie.
Poi l’ultima tappa del Sahara occidentale ; dopo una foratura che ci fa perdere qualche ora si riparte , ovviamente direzione SUD. Il traffico è inesistente e ci imbattiamo in una tempesta di sabbia: la sabbia è bianchissima e invade la carreggiata rendendola quasi invisibile, il vento è allucinante ed il caldo atroce. Non è facile proseguire, questa è l’avventura con la A maiuscola, questo è il vero viaggiare, il vero viaggiare in moto; sono esausto dalla fatica, affianco Davide e dietro la visiera del casco vedo un gran sorriso e una bella luce negli occhi.
Finalmente arriviamo alla frontiera marocchina, infinite procedure burocratiche e poi tre chilometri di terra di nessuno; ho attraversato decine di frontiere ma questa è sicuramente la più incredibile: sembra “the day after”, una pista sabbiosa circondata da mine antiuomo, scheletri di auto e camion arroventati da un sole implacabile, personaggi ambigui che provano a fermarti per imprecisati motivi, un delirio! Raggiungiamo la dogana mauritana ed ecco un’altra prassi allucinante con gli imbonitori che si offrono per aiutarti a risolvere le complicate formalità. I corrotti doganieri giocano sporco e bisogna applicare tutte la diplomazia possibile. Riusciamo a cambiare qualche euro in ouguiya, poi stipuliamo l’assicurazione obbligatoria e siamo liberi di ripartire: è stata durissima ma ce l’abbiamo fatta. Ancora cinquanta chilometri per Nouadibhou immersi in un tramonto che rende magico il deserto.
Welcome to Mauritania. Welcome per modo di dire. Da un paio di anni il paese è off-limits in quanto gruppi di Al-Qaeda scorrazzano nel Maghreb e il turismo è crollato drasticamente. Lo si capisce dai continui posti di blocco dell’esercito mauritano: ogni circa cinquanta chilometri ci si imbatte in giovani ragazzini armati fino ai denti; i militari registrano i nostri passaporti e avvisano il posto di blocco successivo del nostro imminente arrivo . Questa prassi, paradossalmente, ci fa sentire al sicuro.
La magnificenza ed il fascino del deserto hanno il poter di renderti piccolissimo e quasi invisibile; vorremmo visitare l’Adrar e le sue antiche città carovaniere come Chinguetti nel cuore del Sahara, attualmente la tana del lupo dei fanatici islamisti.La tentazione è tanta e riflettiamo a lungo, poi, a malincuore desistiamo: il “core business” dell’overland è arrivare in Sierra Leone e la strada è ancora lunga.
Dunque l’obbiettivo diventa attraversare velocemente la Mauritania ed entrare nell’accogliente e tranquillo Senegal. Il vento è una costante anche in Mauritania e si traduce in un consumo abnorme di benzina; diamo dunque un senso alle nostre taniche di scorta ed al portapacchi in compensato marino. Transitiamo per la capitale Nouakchott e proseguiamo rapidamente; è sconsigliato passare per la frontiera di Rosso in quanto si dice che i doganieri siano famelici e avidi di franchi CFA. L’alternativa è il valico di Diamma e ciò implica una deviazione non proprio facile da trovare. Lasciamo l’asfalto e i primi 35 chilometri si rivelano drammatici impiegando oltre due ore sotto un sole implacabile. Le moto sprofondano nella sabbia e perdiamo anche la pista e i riferimenti. Qualche attimo di panico prima che un paio di pastori comparsi dal nulla ci indichino la retta via . Tratti di durissimo ton ondulè mettono a dura prova gli stanchi ammortizzatori fino a quando entriamo nel Parc National des Oiseaux du Djoudj, regno incontrastato di migliaia di uccelli migratori; ancora qualche chilometro ed ecco le squallide baracche della frontiera. Siamo soli ed iniziano le incessanti richieste di danaro, da quelle più velate a quelle più esplicite: “ Se volete passare sono 10 euro a moto, in caso contrario noi non abbiamo fretta” .
Scusa Davide ma se questa è la frontiera “buona” a Rosso cosa ci avrebbero fatto? Oltre quattro ore per espletare le formalità di entrambe le dogane, una trentina di chilometri di buon asfalto e siamo nella mitica Saint-Louis. Ex capitale di quella che un tempo era l’Africa Occidentale Francese è ricca di bellezze architettoniche ottocentesche in pieno degrado, una Havana africana in miniatura. Poco lontano dal centro il quartiere Guet N’Dar è il regno dei pescatori e delle loro famiglie: ogni mattina centinaia di imbarcazioni tornano con le stive strabordanti di pesce che subito viene essiccato in gironi infernali da donne corpulente o imbarcato in camion frigorifero per la lavorazione industriale. Conosco Saint-Louis e quindi non posso che tornare al ristorante Galaxia dove si mangia il miglior thiéboudieune del Senegal e dove riusciamo a bere la prima birra veramente fredda del viaggio. Una meritata dormita di 12 ore mentre Davide si occupa dell’ordinaria manutenzione delle moto. Un ultimo city tour e imbocchiamo il grande ponte che ci allontana da Saint-Louis. L’ambiente oggi è quello della savana, la strada è monotona ed iniziamo a soffrire il caldo. Proviamo a rinfrescarci alla spiaggia di Lompoul da dove durante la bassa marea si può raggiungere Dakar sfrecciando sulla battigia…
La periferia di Dakar è vicina ed il traffico diventa implacabile, smog e clacson impazziti a fare da cornice. La guida dei senegalesi è molto approssimativa e procediamo lentamente schivando continui pericoli.
Siamo a Dakar, e ci siamo arrivati in moto! Il sogno di ogni motociclista! Non abbiamo fatto la Parigi-Dakar ma è comunque una grande soddisfazione. Abbiamo 48 ore di tempo dall’entrata in Senegal per registrare il nostro carnet de passage; al molo numero otto riusciamo ad espletare tutte le formalità, curiosamente senza dover lasciare alcun franco CFA. Poi è la volta dell’ambasciata della Guinea dove dobbiamo ottenere un documento denominato “laissez-passer “ (il visto ed il carnet non sono sufficienti). La mamma dei burocrati è sempre incinta!
Lasciare Dakar è complicato quanto arrivarci ma solo 85 chilometri ci separano da Saly, la Rimini del Senegal, la spiaggia alla moda dei ricchi senegalesi. Penso sia giunta l’ora di prenderci cura delle nostre membra e Davide conferma quando gli propongo un giorno intero a chilometri zero, un giorno di relax, mare, sole e buon pesce alla griglia. In fondo in fondo siamo in vacanza …
Dopo tanta costa è giunta l’ora di lasciare l’Atlantico ed affrontare l’interno del continente africano; partiamo che è ancora buio per anticipare il torrido caldo che verrà. Procediamo con prudenza in quanto la visibilità è molto scarsa; poi una fantastica alba illumina di rosa il creato. Una bellissima ragazza sta facendo l’autostop e non posso esimermi dal caricarla: il contatto con i locali è parte integrante di qualsiasi viaggio. Purtroppo deve scendere dopo pochi chilometri.
Poi la strada si trasforma in un groviera con migliaia di buche che ci costringono ad un continuo zigzagare. Centinaia di immensi baobab e colorati mercati si alternano ininterrottamente. Una sosta veloce a Kaolack e prima che il caldo diventi imbarazzante arriviamo a Tambacounda. I nostri 390 chilometri giornalieri sono in saccoccia; festeggiamo con un panino all’omelette e ci sistemiamo in un bel bungalow. Compro un giornale locale e leggo notizie non proprio confortanti: sono segnalati episodi di banditismo al confine tra Senegal e Guinea, proprio dove dobbiamo andare noi domani. Meglio non pensarci.
Sta per iniziare quella che sarà la giornata più bella del viaggio, partiamo presto e dopo 120 chilometri siamo in dogana. I funzionari sono gentili e non ci chiedono alcuna mazzetta. Siamo addirittura noi a dovergli mostrare dove mettere i timbri nei nostri carnet de passage. Da queste parti gli europei sono una rarità! Attraversiamo il Parc Transfrontalier Niokolo-Badiar e dopo 30 chilometri appare la dogana della Guinea, che superiamo con un filo di gas.
Sulla Guinea non ho informazioni sicure; o meglio non sono al corrente dell’esatta condizione stradale. Nel dubbio non ci resta che provare. Fino a Koundara fluttuiamo a folle velocità su un nuovissimo asfalto senza incrociare alcun mezzo di trasporto. Dopo circa 70 chilometri, in una curva , il veloce asfalto lascia il posto ad un difficile sterrato, improvvisamente quanto pericolosamente. Il caldo è soffocante e la polvere ci rende irriconoscibili avvolgendoci con uno spesso strato di colore arancione. Perdiamo le bottiglie di acqua e volano via le taniche a causa di buche profonde e scivolose e per un paio di volte mettiamo anche il culo per terra. Siamo nel mezzo di una foresta lussureggiante; incontriamo qualche camion sul ciglio della strada in attesa chissà da quanti giorni di un raro pezzo di ricambio. La strada poi diventa di montagna e improvvisamente un fiume ci sbarra la strada. La risposta africana è un arrugginito traghetto trainato da braccia umane che fa da spola da una riva all’altra.
Alterno momenti di stanchezza preoccupanti a momenti di euforia; cerco di bere molto e mangiare qualche arancio. Siamo a metà pomeriggio e ci rendiamo conto che non arriveremo mai. Ma in fondo, arrivare dove?
Davide ha un piccolo impasse quasi da fermo e cade. È inutile continuare, siamo oramai allo stremo delle forze dopo 360 chilometri molto impegnativi. Nel mezzo della foresta appare un personaggio quasi regale: tunica blu, barba folta e sguardo magnetico. Gli chiediamo rifugio e non ha dubbi: l’ospitalità musulmana è proverbiale. L’uomo ci fa entrare nel suo regno. Non visibile dalla strada appare una casetta di legno immersa nella foresta e decine di gioiosi bambini. Lui è l’imam del villaggio (ma quale villaggio?) , padre di 8 figli ed anche il maestro della comunità. Ecco perchè il suo cortile nel tardo pomeriggio si riempie di decine di bambini che si raccolgono attorno ad una vecchia lavagna a sillabare i versi del Corano. Una litania coinvolgente, una musicalità piacevole quanto inaspettata, quasi mistica. È un mondo unico, vero, speciale, forse in estinzione.
Montiamo la tenda e con tre secchi d’acqua riusciamo a toglierci gli strati di polvere e terra che sono oramai diventati parte di noi; l’ospitalità prevede anche un piatto di riso con mafè e una complicata conversazione rigorosamente tra uomini.
Non appena il sole tramonta donne e bambini si rintanano nella capanna; dalla nostra tenda ascoltiamo i dolci rumori del focolare, i bambini che giocano e che forse si stanno chiedendo chi siano questi due strani personaggi appena arrivati. Poi cala la notte ed un profondo silenzio.
Alle prime luci dell’alba usciamo dalla tenda e tutto gli indumenti che avevamo lasciato all’aperto sono bagnati fradici: la natura impone sempre le proprie leggi. Salutiamo i nostri ospiti e ci mettiamo in marcia. Lo sterrato è ancora impegnativo e stentiamo a prendere il ritmo giusto. Impieghiamo oltre tre ore per fare i 90 chilometri che ci separano da Labè, caotica capitale amministrativa del Fouta Djalon.
Facciamo il pieno e ripartiamo; la strada è asfaltata ma piena di buche pericolose, le curve si susseguono tra una vegetazione rigogliosa. Attraversiamo i villaggi di Pita, Dalaba e Mamou schivando mucche e capre, furgoni impazziti e sgangherate biciclette. Davide fa l’andatura e fatico a tenere il passo, oggi è molto motivato e solo i controlli dei militari riescono a fermarlo. Si, anche in Guinea ci sono molti militari in circolazione, e molto incuriositi dal nostro passaggio. Qualcuno si dimostra interessato ad una eventuale compravendita della moto. A metà pomeriggio raggiungiamo Kindia dopo altri 365 chilometri di viaggio. Anche oggi siamo in condizioni pietose: coperti di polvere, stremati dalla fatica ma anche molto emozionati in quanto domani potrebbe essere il grande giorno, l’entrata “trionfale” in Sierra Leone. Festeggiamo con una birra e facendo lavare le nostre Transalp, diventate oramai protesi ineludibili del nostro corpo. Dopo una notte tranquilla partiamo con calma; il panorama montano dei giorni scorsi è oggi sostituito da pianure con immensi palmeti. Subito ci imbattiamo in un controllo di militari piuttosto ubriachi; vorrebbero dei soldi, ci fanno grosse pressioni ma con diplomazia riusciamo a proseguire indenni. A Coyah lasciamo l’arteria principale che porta alla capitale Conakry e svoltiamo a sinistra. La strada diventa più stretta e meno battuta, si sente aria di frontiera anche se mancano ancora 80 chilometri. Iniziano continui posti di blocco; il terzo è quasi fatale. Un militare incarognito si impunta su un assurdo cavillo burocratico e non intende farci proseguire. È cattivissimo, come nei peggiori film di guerra. È chiaro che sta cercando di arrotondare il suo magro stipendio; tramite un suo scagnozzo ci fa capire che una soluzione ci sarebbe, una soluzione da 100 euro a testa. Sono fuori di testa, tra 20 chilometri c’è Patrick al confine che ci sta aspettando e io sono qua impantanato con questo bastardo. Vorrei essere e fare il Rambo ma forse non è il caso. Inizia allora una lunga contrattazione che si risolve con una tangente di 20 euro totali. Anche l’uscita dalla Guinea è piuttosto ostica ed elaborata ed è con immensa felicità che leggo il cartello “Sierra Leone”. Cerco Patrick ma non vedo, lo chiamo al cellulare ma non risponde.
Lui ha i nostri visti e tutti i permessi, senza di lui non si entra. Cerco di spiegare la situazione ai doganieri ma non ne vogliono sapere. Il tempo si dilata. L’euforia si alterna con lo sgomento. Parcheggio la moto e faccio un centinaio di metri a piedi e finalmente lo vedo, Patrick.
Inizia una di quelle scene da “carrambata” con abbracci, baci, urla, un tripudio di emozioni e di gioia. Ce l’abbiamo fatta. Patrick ci affida alle cure di un amico doganiere che in mezz’ora risolve tutte le formalità. L’ultima dogana. Una birra ghiacciata e partiamo alla volta di Makeni; Patrick è in macchina e ci scorta con le quattro frecce lampeggianti, come se fossimo importanti diplomatici europei. Ci togliamo gli stivali e guidiamo a piedi nudi, ci facciamo autoscatti mentre guidiamo. Ai posti di blocco lasciamo parlare Patrick e non abbiamo mai problemi, ora stiamo giocando in casa. Con la mente ripercorro gli highlight del viaggio facendomi solitarie risate. Inizia il conto alla rovescia, ancora pochi chilometri all’obbiettivo finale. Patrick rallenta e si ferma sul ciglio della strada, sua moglie e suo figlio appena nato ci stanno aspettando. Scendiamo per l’ultima volta dalle moto. Un abbraccio caloroso con Davide, una foto di rito e gli sms alle persone più care: MISSIONE COMPIUTA.
Se la felicità è un attimo, questi sono attimi di vera felicità.
Trovo un Sierra leone molto diversa dai primi anni duemila, molte multinazionali stanno investendo nel settore minerario ed agricolo, le fratture sociali sono momentaneamente ricomposte e si respira una aria di euforia e di fiducia nel futuro. Incontro tanti vecchi amici e soprattutto il vescovo Biguzzi, incredulo ma felice per la nostra avventura.
È Natale e come Re Magi dei tempi moderni doniamo alla Caritas le nostre moto.
Il cerchio si è chiuso.